Tre storie, un testo originale dalla penna di Matteo Luoni, hanno accompagnato la chiusura del nostro 2024. Un racconto corale interpretato a tre voci dalle attrici Jessica Sedda e Samantha Silvestri e dall’attore Andrea Panigatti. Espressione della potenza della parola immaginazione, che è la parola che ha definito il nostro incontro di fine anno.

Immaginazione: due parole in una, quell’attimo in cui la lingua batte sul palato e fa una breve pausa, l’istante che rende tutto possibile, che racchiude la storia del nostro chi siamo, memorie, esperienza e che ci rende potenti per la possibilità del nuovo.  Ciò che rende l’immaginazione determinante è proprio il suo legame con l’azione, è il principio di trasformazione. Immaginazione è il potere che abbiamo di conferire significato al mondo che per 4BILD significa adottare l’immaginazione per promuovere l’innovazione, significa che per crescere dobbiamo sviluppare offerte innovative per espandere la domanda. Queste offerte sono, essenzialmente, prodotti dell’immaginazione: occorre concepire e realizzare nuove possibilità, promuovendo  la capacità di immaginare “ciò che non è, ma che potrebbe essere”. L’immaginazione è l’intelligenza che si diverte.

Costruiamo storie, insieme.

È un inverno di tanto, tanto tempo fa, un tempo che chiamiamo Medioevo.
È quasi Natale. Il sole sta scomparendo dietro le montagne. Un sentiero serpeggia in fondo a una valle.
Nel freddo della sera, alcuni fiocchi di neve brillano alla luce degli ultimi raggi di sole. Si posano sulle spalle di un pellegrino che sta percorrendo il sentiero. Quel pellegrino sono io.
Cammino ormai da giorni per raggiungere la Cattedrale.
Penso di essere ormai vicino, ma non riesco a scorgere niente all’orizzonte: nessuna guglia, nessun campanile – sebbene tutti mi dicono che sia quasi arrivato. Inizio ad agitarmi. Devo chiedere a qualcuno, anche se la valle che ho davanti a me sembra desolata, anzi, divorata: i fianchi delle montagne sono bucherellati da tante cave di pietra.
Il sentiero ci passa accanto e vedo alcuni uomini lavorare col piccone in mano. I loro corpi nervosi e scattanti spaccano senza sosta le pietre dalla roccia della montagna.
Ho quasi timore a rivolgermi a loro. Ma lo faccio.

“Mi scusi… sa indicarmi dove…?”
Non mi lascia finire: un uomo, sporco e arruffato, mi indica scocciato la strada che conosco già. Sto già per rimettermi in cammino a testa bassa, quando, con la sua voce roca, mi chiede: “Perché caspita vuoi andare là?”
Io rispondo: “Sono un pellegrino, alla Cattedrale troverò ristoro. E tu, piuttosto, che cosa fai?”
L’uomo mi guarda in cagnesco e mi dice: “Non lo vedi? Mi ammazzo di fatica.”

Continuo sul sentiero, e il cielo si fa sempre più buio. Le poche stelle che appaiono non mi sono d’aiuto. Ma non manca la luce: arriva da dentro le cave. Gli uomini hanno acceso dei fuochi e continuano a lavorare senza sosta durante la notte.
Mi avvicino di nuovo a uno di loro. Gli chiedo: “E’ questa la strada?”
Non mi indica il sentiero, ma un punto all’orizzonte. “Là.”

Almeno questo due parole le dice, mi sembra un po’ più simpatico del precedente.
Allora non riesco a trattenermi: “Scusa, ma che cosa fai in questa cava a tarda notte?”
“Non vedi?”, dice indicandomi il piccone, “lavoro per sfamare la mia famiglia.”

Guardo l’orizzonte, il punto in cui ha indicato l’uomo. L’aria soffia gelida. Cammino. La neve sferza il mio volto. Cammino. Le forze quasi mi abbandonano. Barcollo. All’imbocco di un’ennesima cava che non avevo notato un uomo posa il suo piccone e mi aiuta a sedermi. Lo ringrazio. E stavolta, a lui chiedo:
“Buon uomo, che cosa stai facendo, qui, al gelo, a tarda notte, senza luce, a spaccare la roccia?”
“Non è chiaro?”,
Gli rispondo: “Certo, ti spacchi di fatica per sfamare la tua famiglia, scusa la domanda.
Ma lui: “No!”, mi dice, “Come fai a non vederlo?”
“Vedere cosa?”
La sua mano si alza verso un punto, in alto. Io la seguo con lo sguardo. Al posto delle montagne e delle stelle, io vedo, davanti a me, l’imponente facciata di marmo, le guglie bianche e innevate, il campanile che svetta verso il cielo:

“Caro pellegrino, spacco le pietre per costruire la Cattedrale a cui sei diretto.”

Io non la conoscevo questa storia, mi hanno detto che è di un autore francese di nome Charles Peguy. Ci penso spesso, quando faccio qualcosa. Soprattutto quando faccio qualcosa che non mi va di fare. Io lavoro in teatro, lo so, faccio il lavoro che ho scelto, ma vi assicuro che… a volte mi rendo conto che non sto costruendo nessuna Cattedrale. A volte sto soltanto sfamando me stessa, la mia famiglia. E a volte… nemmeno quello: faccio solo fatica.
Succede anche a noi attori. Per esempio, ogni volta che conosco qualcuno, la scena è sempre la stessa:

– Wow! Fai teatro! Come sei fortunata!

– Perché, scusa?

– Ma come perché? Praticamente non ti annoi mai!

– Questo non è vero… ti assicuro che…

– Be’, no, non in tutti i lavori puoi mettere… la tua creatività… la tua immaginazione, come fai tu.

Ma questo è solo un esempio.
Un’altra cosa che mi dicono le persone quando mi incontrano per la prima volta è:

– Be’, l’avrai capito subito che volevi fare l’attrice, vero? Eri una bambina molto espansiva, immagino!

No, per niente. Io, in realtà, neanche lo sapevo che volevo fare l’attrice. E no, non ero per niente espansiva. La mia attività preferita? Passavo luuuunghe ore in bagno… a osservare le piastrelle.

Sì, le piastrelle. Avete presente quelle piastrelle di ceramica, non lisce, con la superficie tutta un po’ irregolare? Sì, alcuni di voi probabilmente ce l’ha presente.
Il mio bagno aveva quel tipo di piastrella a mezza parete. Di colore turchese.
Era il mio rito, da piccola:
ogni mattina, prima di andare a scuola, andavo in bagno, mi sedevo sulla tazza e osservavo il muro davanti a me. Mia madre doveva urlare – ogni mattina – perché uscissi.
Cosa facevo? Be’… guardavo con attenzione le irregolarità sulla superficie delle piastrelle… e… con l’immaginazione… ci indovinavo delle forme.
Streghe, maghi, cavalieri… animali fantastici e paesaggi maestosi.
Fissavo la parete davanti a me, fissavo e fissavo… un giorno ero nel deserto dei Gobi, inseguita da navi spaziali. Il giorno dopo mi facevo strada nella Foresta Nera, alla caccia di lupi mannari e streghe. Il giorno dopo ancora, sedevo su una panchina, in mezzo a un parco, a osservare lo Skyline di una città al tramonto.
E vedevo tutto questo… nelle irregolarità di quelle ceramiche. Nella luce che le colpiva, che ne modificava forme e colori: nelle fredde mattine di novembre vedevo storie diverse da quelle che vedevo nella luce calda dei pomeriggi di febbraio… e così via.
Ogni mattina, inventavo nuove storie, nuovi personaggi, e li facevo vivere dentro di me per tutta la giornata…
Nei giorni belli.
Ma anche nei giorni brutti.
Soprattutto nei giorni brutti.
Quelle piastrelle… ciò che vedevo in quelle piastrelle mi aiutava a farcela. A scappare in un altro mondo. Un mondo magico che poi… ho cercato di nuovo da adulta… nel teatro.

Quelle storie erano nei tuoi occhi o dentro le forme di quelle piastrelle?
Sì, c’è la tua capacità di immaginare – la capacità di immaginare l’abbiamo tutte e tutti.
Ma è anche vero che un pittore non può dipingere un bellissimo quadro se non ha una tavola bianca su cui farlo.
E così: ciascuno di noi non può creare, o esprimersi come vuole se non ha uno spazio che lo contenga, uno spazio che gli permetta di farlo.

Un bagno… una parete piastrellata… una casa… uno studio… un ufficio… una scuola…

Quante vite contengono questi spazi?
Quante storie contengono?
Quanta immaginazione?

Un bagno… una parete piastrellata… una casa… uno studio… un ufficio… una scuola…

Una cattedrale.

Il pellegrino salutò l’ultimo uomo, l’ultimo minatore che gli aveva indicato la via, ed entro nella Cattedrale.
Era notte, ma la luce dei bracieri si rifletteva di parete in parete, su ogni singola pietra che componeva quegli archi, quelle navate, quelle volte bianche e maestose.

Che cosa c’era in quell’edificio che lo rendeva così speciale… così sacro?
C’era il senso di qualcosa di invisibile, sì, c’era… ciò in cui credeva il pellegrino.

Ma c’era anche qualcos’altro.
In fondo, vicino all’altare, erano montate delle impalcature di legno.
L’edificio, il pellegrino si accorse, era ancora in costruzione.
Il lavoro di ogni singola cava, di ogni singolo uomo e donna che aveva visto o incrociato durante il suo cammino, confluiva lì.
Ci voleva un’intera comunità per costruire qualcosa di così maestoso.
Ci voleva il lavoro di ogni singola persona perché quello spazio potesse apparire così bello.

E così capì.
Capì che era stato il lavoro delle persone di quella valle a rendere la Cattedrale così importante, così conosciuta in tutto il paese.
Ma capì anche che il loro lavoro non sarebbe bastato a costruirla.
No.
Era stato necessario che tutte quelle persone la immaginassero, quella Cattedrale.
Ogni giorno.
Ogni sera, e ogni mattina.
La immaginassero.

Nel disegno delle fughe dei mattoni.
Nella luce mattutina che colpisce l’intonaco.
Nelle irregolarità delle piastrelle che rivestono una stanza.

In quelle pareti che altre mani e altre persone avevano contribuito a costruire.

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